Majella mon amour

Abruzzo meridionale, Maja, la montagna femmina, pagana. Un giro preparato in tre anni, desiderato da tempo. La grande montagna madre, distesa sulla terra come una dea potente, sonnolenta, dai fianchi larghi. Gli amici del CAI di Lanciano apprezzano questa scelta abruzzese più a sud, e si fanno in quattro e in otto per accoglierci con grande ospitalità e simpatia. Il ritmo è serrato. Visita - incontro – montagna – borgo, e di mezzo pure il mare. Al trabocco Sasso della Cajana (scoglio del gabbiano) ci accoglie Marino e tutta la famiglia, pranzo a sorpresa seduti sui trampoli del mare. Quella del trabocco è storia d'ingegno, contadini che cercano il modo di protendersi sul mare e ottenerne di che vivere. I trabocchi sono macchine da pesca, in legno, aeree sopra i flutti. Sbatacchiati dalle onde che quassù si avvertono appena accogliamo con gaudio cozze, vino bianco, pasta alla chitarra e canocchie, pesce fritto. E per finire celli pieni, dolcetti lavorati a mano, farina olio e vino, farciti di marmellata di mosto d'uva.



Scorriamo veloci dall'abbazia di S. Giovanni in Venere alla Costa dei Trabocchi, belvedere dannunziano, centro storico di Lanciano a tutta velocità, castello di Septe (Altro che dormire in rifugio! Nientemeno che un quattro stelle!) e di nuovo a Lanciano in sede CAI con scambi di doni, brindisi e altri celli pieni. Lanciano è eretta su quattro colli ma non te ne accorgi perché ci stai sopra, centro storico, due miracoli eucaristici, basilica elevata sopra un ponte, e sotto archeologia romana.
Chi alzati alle due, chi alle tre, alla fine del primo giorno caliamo nelle coltri ben dopo mezzanotte, e siamo cotti.


Secondo giorno, nuova alzata all'alba, destinazione rifugio Bruno Pomilio e Monte Amaro. A Septe è soleggiato ma la dea oggi è incappucciata, ritirata in una spessa coltre di nubi. Siamo lì, ce l'abbiamo sotto i piedi, ma non la vediamo. Camminiamo una montagna raccontata da chi la conosce bene, calpestiamo le sue pietre, strusciamo tra i mughi, coperti da infinitesime goccioline di nebbia, come sospesi.


Madonnina, blockhaus, tavole dei briganti, fontanino, sgrottamento. Punti di riferimento del nostro itinerario lattiginoso, che solo i locali sanno individuare, minimi riferimenti di un paesaggio che rimane precluso. Di raggiungere il monte Amaro, culmine del massiccio, neanche a parlarne. Resterà là, per una prossima occasione. Solo al rientro, in un ultimo minuto possibile, la montagna mostra per poco la sua profondità, una valle, rupi scoscese, l'altezza ove siamo. Quel tanto che basta a non farci pensare di essercela inventata.
Visitiamo i tholos, quasi piccoli fortini, simili ad un incrocio tra nuraghe e trullo. Per raggiungerli, camminata in faggeta e serpentone arcobaleno di noi escursionisti CAI tra campi di felci lussureggianti ad altezza del busto e orchidee color ciclamino. Su quelli che un tempo erano prativi lavorati e ora sono prossimi a farsi bosco. Capanne di pietra a uso agricolo e pastorale insieme, un po' tenevano gli animali, un po' coltivavano quel che si poteva. Anche qua l'ingegneria agreste trovava modi e sistemi per vivere del proprio ambiente.


Sosta a Guardiagrele, che pure vanta una sede CAI. Sise delle monache in premiata pasticceria del centro, tre montagnole di pan di Spagna, farcite sul momento di crema pasticcera. Dolce a denominazione tipica riconosciuta ufficialmente, una delle ipotesi sull'origine del nome è che le monache usassero inserire un involto di stoffa tra i seni, per appianare le forme. Superveloce visita alla collegiata di S. Maria Maggiore, quattro chiese in una, una strada che ci passa sotto, l'ingresso in salita, su per una scalinata interna dove i nobili entravano a cavallo direttamente fin sulla navata. La guida suggerisce di correre scendendo, così da evocare il rumore degli zoccoli.
Cena tarda e colazione all'alba per non farci mancare nulla. Terzo giorno. Oggi sì che la Majella si rivela da lontano in tutta la sua mole e splendore, sgombra di nubi. Ma dobbiamo farcene una ragione, siamo diretti altrove: Caramanico Terme, Decontra, per gli eremi di San Giovanni e San Bartolomeo. Il primo, estremo rifugio di Pietro da Morrone, ospitò per anni quel Celestino V di dantesca memoria. Decontra, come altri paesini abruzzesi, era quasi del tutto disabitata, prima che con geniale inventiva decidessero di dar via le case ad un euro, con obbligo di ripristino. Pian piano si è ripopolata, ne hanno fatto qualche b&b, sono venuti gli inglesi affascinati da clima e paesaggio, la vita è tornata e ora i prezzi della case sono saliti. Puntiamo all'eremo in una maestà di fioriture, sui versanti morbidi del massiccio, vellutati di verde, e nella penombra delle faggete.


Per andare all'eremo si scende immergendosi nel fianco nascosto della montagna, fin dove si rivela la roccia nuda, incavata, affacciata sulla valle boscosa e profonda dell'Orfento. Luogo davvero remoto, immagina farselo a piedi nel Duecento a giorni e giorni di cammino dai centri abitati. Passaggio per l'eremo a gradini scavati nella roccia, a qualche metro da terra, affacciati sul vuoto.  Brividi da vertigine e una strisciata da serpente per raggiungere i due piccoli vani che fanno da rifugio e altare, immersi nel bosco. Si va su a gruppetti, chi vuole e pochi alla volta, le ore scorrono, un temporale in arrivo, e non c'è più tempo per l'eremo di San Bartolomeo, pazienza.
Sosta gelato, ultimi saluti con gli amici del CAI Lanciano, e via di corsa per la trasferta a Macerata. Di corsa si fa per dire, perché restiamo intrappolati nel traffico di rientro dal mare, due ore in coda in autostrada e saltiamo la doccia per non saltar la cena. Serata organizzata dagli amici del CAI Macerata, con guida ambientale del parco dei Sibillini.
Il quarto giorno visita a Visso, che ha oggi il volto lasciato dal terremoto del 2016. Qui per fortuna non ha fatto vittime, ma ha distrutto la gran parte del paese e un centro storico del Duecento di grande bellezza. Per Visso, da Norcia, passava un'importante via di pellegrinaggio alla Madonna nera di Loreto. L'antica targa di pietra che indicava questo transito dall'alto di un vicolo è stata risparmiata. Dall'alto del monte il nostro accompagnatore ci mostra la roccia nuda sopra la Valnerina: là la montagna è crollata e ha invaso la valle, occludendo la strada con tonnellate di pietra, rompendo i ponti, sollevando il fondo.

Centro storico di Visso
Non basta la bella salita lungo il GAS - grande anello dei Sibillini - né il rientro sotto la pioggia battente, a sminuire l'impatto con il borgo devastato. Sotto agli elmetti di sicurezza ci è consentito visitare la zona rossa chiusa del centro storico, accompagnati da una guida del parco, dal vicesindaco e scortati da un vigile urbano. Dei duemila e oltre abitanti molti sono andati via e non torneranno. L'ultimo terremoto ha dato il colpo finale alle difficoltà di un vivere in montagna già precario di per sé. Quelli rimasti vivono nelle rare case superstiti o nelle casette prefabbricate, senza più un a piazza, una chiesa, un luogo di ritrovo. Tutto il centro storico è un cantiere, ma per ora si tratta ancora solo della messa in sicurezza degli edifici pericolanti. Per la ricostruzione non si sa. La terra si scuote e scrolla con una sorta di ciclicità nota agli abitanti, vent'anni per i terremoti minori, trecento per i grandi sismi, più o meno. E quello del 2016 è stato grande. Quando la terra trema, crollano le montagne. L'Appennino è anche questo.



Quattro giorni abruzzesi intensi e vissuti, merito dell'amicizia che nasce all'interno del CAI, anche a distanza e tra persone che dapprima non si conoscono. Tanti gli amici incontrati e che ci hanno accompagnato, raccontandoci del loro territorio, mostrandoci tutto ciò che era possibile e rendendo questo soggiorno caloroso e ospitale. Un grosso grazie a Antonella, Massimiliano, Catia, Paola, Bruno, Luciano, Donatella e a tutti gli amici del CAI di Lanciano e Macerata: speriamo di poter ricambiare con una loro visita nelle nostre montagne!

Sabina Bollori

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